martedì 21 luglio 2015

Esistere

Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l’altrui distrazione. (…) Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere. (Oriana Fallaci)

Ieri sera ho iniziato a leggere Lettera ad un bambino mai nato

Poi sono andata a letto e non riuscivo a dormire. Le prime pagine del libro mi avevano instillato una certa angoscia e la voglia di scrivere. Le parole quasi mi venivano dettate, spero di non averle dimenticate. Mi è tornata quella sensazione sperimentata nei mesi dell’insonnia: appena stavo per addormentarmi, giungeva dal cervello una scossa per svegliarmi, quasi ad ammonirmi di non farlo. Così per almeno una decina di volte. Il tempo passava, restavo vigile, e intanto il corpo nudo sudava tra le lenzuola.

L’unico pensiero nella mente era che la vita è un soffio, e può terminare da un momento all’altro, senza preavviso, così, tra le lenzuola umide in una notte d’estate. Sentivo come se, se mi fossi addormentata, avrei cessato di vivere. E così, quella scossa che dal cervello mi impediva di addormentarmi, in realtà mi teneva in vita. Sentivo il mio respiro, semplice e fragile. Mai prima di ieri notte ho avvertito così da vicino la transitorietà di questa vita, senza paura, interrogandomi sul senso che ne ho dato.

Ho pensato a questa fase della mia esistenza, alla consapevolezza di non aver lasciato alcun segno. Se davvero in quel momento mi fossi addormentata sarebbe finito tutto così, con tanti viaggi ancora da fare, tanti amici da rivedere, tante cose da scoprire, una vita ancora da realizzare – che poi, cosa vuol dire realizzare? Non basta semplicemente vivere, ciascuno a suo modo, ciascuno per quel che gli è dato?

Non era una consapevolezza spiacevole, solo inusuale. Eppure essa dovrebbe essere costante, senza limitare l'esistenza.


venerdì 20 marzo 2015

Emancipazione e Sottomissione

Sto leggendo – e rileggendo – molti bellissimi libri ultimamente. Uno di quelli che mi ha più stupito in relazione all’attualità è Sottomissione di Michel Houellebecq, quello che tanto ha fatto discutere dopo gli attentati a Charlie Hebdo. Mi aspettavo un libro sprezzante, pieno di banalità sui musulmani, e invece non contiene nulla di tutto questo, anzi credo dovrebbe essere preso più seriamente di quanto fatto finora. Non perché descriva il tipo di società in cui vorrei vivere, ma certamente fa pensare. Questo romanzo rientra a pieno titolo nel genere della fantapolitica, così come alcuni dei miei libri preferiti, 1984 di Orwell e Saggio sulla lucidità di José Saramago.

Sottomissione racconta l’alienante storia di un professore universitario della Sorbona di Parigi; uomo sulla quarantina, ateo, intellettuale, tendenzialmente single ma spesso in compagnia di una delle sue studentesse. Lo sfondo politico, in cui s’inserisce la storia personale del protagonista, è l’ascesa al potere, in maniera diplomatica e democratica, del partito islamista moderato, la Fratellanza, che rompe l'alternanza destra-sinistra e diventa incredibilmente il partito pacificatore, che porta ordine, stabilità, crescita, ritorno a valori comunitari e sicurezza, ma che in cambio propone la conversione e il ritorno alla tradizione, ad una società dove la famiglia è il centro, a costo di fondarsi su rapporti di interesse, votati alla procreazione e all’educazione delle future generazioni in un ambiente protetto. Il protagonista, che è pure il narratore, osserva i cambiamenti che man mano pervadono la sua vita quotidiana, dapprima con distacco ed indifferenza, cercando di apprezzarne i vantaggi (assicurarsi per esempio una lauta pensione prima del tempo), fin quando non incontra un docente convertitosi all’islam, talentuoso divulgatore, e si ritrova in un vortice che lo condurrà inaspettatamente alla conversione – una conversione di convenienza, certo, ma non solo dettata da ragioni economiche – e a vivere una seconda vita mai immaginata prima. La sua precedente storia è da tempo finita, con l’emigrazione in Israele della sua ragazza (e di tanti altri ebrei), e a tal proposito si discute il rapporto tra islam e le altre religioni monoteiste, dove per esempio i cristiani risultano deboli, incapaci di dare certezze ai proseliti, poiché hanno “ceduto” su molti fronti in nome della laicità e delle necessità dei tempi moderni. Il protagonista, dopo la conversione, vede il suo stipendio triplicarsi, senza alcun onere per lo Stato, e dopo aver vissuto vari mesi in solitudine, all’affannosa ricerca di rapporti sessuali a pagamento, beneficia della possibilità di avere una e più mogli, scelte da altre donne sulla base del suo status sociale, e si scopre appagato. La disoccupazione cala di colpo, le donne cambiano repentinamente abbigliamento, scompaiono dai circoli accademici, e il protagonista si culla nell’inaspettato piacere che deriva da questo tipo di società. È uno scenario provocatorio, estremo, ma il contesto descritto si fonda su basi realistiche, e il risultato è un romanzo nemmeno così surreale, che racconta una delle possibili conseguenze dello spaesamento che provoca una società individualista, libertina e sempre più orfana di riferimenti come quella europea. Non si dà un giudizio di valore a tale destino, ma la storia ha una sua coerenza e solidità e, per chi ha un minimo vissuto in grandi città europee, ha il terrificante sapore del possibile.

Non è casuale per me aver letto questo libro subito dopo Penelope va alla guerra, e a distanza di un mese da Il sesso inutile. Personalmente, mi ritengo femminista, di quel femminismo alla Fallaci, che non ha bisogno di urlare sempre alla discriminazione, che sta comodamente e senza troppe lagne o rivendicazioni dove una volta avevano diritto a stare solo gli uomini, o quel femminismo alla Angela Terzani, dove non sei un essere inferiore, e anzi hai ugualmente un ruolo importante ed una identità propria se decidi di seguire e supportare tuo marito in giro per il mondo, o di avere dei figli e dedicarti alla famiglia. Credo che questo romanzo sia dannatamente realistico, e lo dico perché inizio a saperne abbastanza su musulmani, vita nei contesti tradizionali, intermedi e ultra-contemporanei, e sentimenti contrastanti nelle donne di diverse culture. Sarebbe bello discuterne tra donne (ma anche uomini, odio le iniziative mono-genere), esplorare quella parte del romanzo che parla (o meglio, lascia intendere) di donne che in quel cambiamento così anacronistico si riscoprono forse meno confuse e meno ansiose; vorrei chiedere a ciascuna come si vive questo periodo di mezzo, in cui se nasci in una famiglia illuminata, puoi godere delle stesse opportunità degli uomini, puoi decidere della tua vita, se lavorare o meno, se studiare o meno, se viaggiare da sola o in compagnia, se avere o meno dei figli – fermo restando la piaga dei femminicidi, esempio di tenace resistenza di certi uomini, anche nelle società evolute, ad accettare la donna come essere libero e indipendente. E però in molte scoprono che cambiare partner ogni sera alla lunga porta frustrazione, troppa libertà senza capacità di scelta conduce a nuove schiavitù; non si osa rimpiangere il passato, ma si scopre anche che, per certe donne, pure intelligenti e amabili, la società semplice dava sicurezza, una precisa utilità, seppur molta meno libertà. Non c’è un meglio o un peggio in generale, c’è solo quel sentimento di spaesamento, dove tutti siamo diventati donne e uomini al contempo, potenzialmente con gli stessi ruoli e le stesse capacità, la stessa voglia di amare e di essere amati, con la certezza di non voler essere sottomesse a nessuno, di scegliere, sperimentare, essere libere e non schiave delle tradizioni, ma poi troppe volte sole, senza famiglia né dietro né davanti a noi, con una carriera, forse, e un’eredità di parole, valori, e talvolta soldi, destinata all’umanità tutta e a nessuno.

Il paradosso o la frontiera dell’emancipazione, dove ognuno fa da sé, ogni legame diventa insopportabile e sembra volerci schiavizzare, o forse è solo quel dubbio che così bene illustrava molti anni fa la giovanissima Oriana Fallaci ne Il sesso inutile (niente a che vedere con quella rabbiosa dell'ultimo periodo), dopo aver girato il mondo per raccontare la condizione della donna, essersi scandalizzata di fronte alle spose bambine, ai matrimoni combinati, alla poligamia, aver ammirato le orgogliose matriarche malesi (esempio di oppressione al contrario, ma pur sempre insana), per poi tornare in Occidente e chiedersi se invece quelle donne semisvestite, emancipate, ubriache, libere sessualmente e in verità sole, non siano altrettanto infelici quanto le altre.

La sera, quando la subway le inghiottiva per sputarle dinanzi all’appartamento pagato coi soldi di tanta indipendenza, una malinconia disperata appannava loro il cuore e il cervello: tutta New York sembrava sussultare dei loro rabbiosi respiri. Così riscappavano fuori e di nuovo la subway le inghiottiva per sputarle dinanzi ad un cinematografo o un bar dove si sarebbero ubriacata, sole, a pensare quanto è ambigua la loro vittoria di cui il mondo parla fino a farne un problema. E Dio sa se è un problema. Con quegli eterni bambini che cercano la madre perfino in una segretaria, esse esercitano, sì, autorità e autosufficienza, ma allo stesso tempo sognano umiltà e compagnia: poiché non si sfugge alle regole ferree di una società, ma non si sfugge nemmeno ai sentimenti più semplici. […]
Da un capo all’altro della terra le donne vivono in un modo sbagliato: o segregate come bestie in uno zoo, guardando il cielo e la gente da un lenzuolo che le avvolge come il sudario avvolge il cadavere, o scatenate come guerrieri ambiziosi, guadagnando medaglie nelle gare di tiro coi maschi. E io non sapevo se la pena più profonda l’avessi provata dinanzi alla piccola sposa di Karachi o dinanzi alla brutta soldatessa di Ankara. Non sapevo se mi avesse spaventato di più la vecchia cinese coi piedi fasciati o questa americana impegnata a trattenere un italiano che sbadigliava di sonno. […]
Il grande ritornello che scuote le donne dell’intero globo terrestre si chiama Emancipazione e Progresso: ogni volta che sbarcavo in un nuovo paese mi trovavo dinanzi queste due parolone e le donne se ne riempivan la bocca quasi si fosse trattato di chewingum. Gliele abbiamo insegnate noi donne evolute, come a masticare chewinng gum, ma non gli abbiamo detto che il chewingum può far male allo stomaco. […]
Girando come Caino intorno alla luna, ero tornata in ogni senso al medesimo punto da cui ero partita. E in quel girare avevo seguito la marcia delle donne intorno a una cupa, stupidissima infelicità. [O.Fallaci]

martedì 13 gennaio 2015

Re-azioni. Difendiamo le differenze e smetteremo di creare mostri

Passata l’emozione, è tempo di riflettere a fondo su quanto è accaduto in Francia e nel mondo in questi giorni. Si potrebbe dire molto, ma io mi fermo a tre temi: il terrorismo figlio non riconosciuto dell’Europa, l’ambiguità della libertà di satira, la parzialità del nostro coinvolgimento.

1) Dov’è la novità? La novità è il terrorismo che sta attaccando l’Europa, dall’aggettivo che ci ostiniamo a considerare straniero, ossia il terrorismo “islamico”. Non è la prima volta che abbiamo a che fare con dei terroristi nel continente, ma stavolta li percepiamo come frutto di un’invasione, di un tradimento alla nostra accoglienza, di un’ingratitudine. Eppure, a conti fatti, qui si parla di persone che da generazioni vivono e crescono sulla nostra stessa terra, figli che abbiamo educato nelle nostre scuole e con le nostre politiche di integrazione, insegnando loro lingua e valori comuni. Inutile quindi continuare a parlare di immigrati, qui siamo di fronte ad un figlio “diseredato” della famiglia europea, prodotto della messa in pratica dei nostri valori pacifisti, di tolleranza, rispetto e solidarietà, venuto su non proprio secondo le nostre aspettative. La domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: perché? Dove ho sbagliato?

E’ vero che – diceva Fallaci – i musulmani non sono tutti terroristi ma tutti i terroristi oggi sono musulmani, ma questo comporta un’ulteriore riflessione. Perché una frangia radicale di questa vasta popolazione di credenti nel mondo si affida a tale interpretazione, semplificata e manipolata, fino a dare la propria vita nel nome di essa? Cosa rappresenta l’islam radicale oggi nel palcoscenico geopolitico e come si collega alle numerose divisioni interne all’islam stesso? È forse un ideale appagante per quanti vivono con frustrazione un’apparente democrazia e tolleranza (che nasconde tanta intolleranza e impone un modello unico identitario, di sviluppo, civiltà e governo a tutto il mondo)? Forse anche un mezzo per catalizzare risorse umane fragili contro chi ha sempre predicato bene e razzolato male sulla pelle e a casa altrui? Da europea anche io sogno spesso un mondo in cui tutti i popoli votano e vivono in un regime democratico, senza violenza e senza massacri, ma so bene che la realtà è molto più complessa.

2) Secondo, la libertà di satira. Al di là delle facili difese ed identificazione che ciascuno di noi ha preso, credo si tratti di una libertà che non a tutti vada giù. Perché la satira mette a nudo gli aspetti del potere – anche quello a noi piacente, o vicino, laico o religioso che sia – e molto spesso proprio non ci va giù. Dire che siamo Charlie Hebdo è una frase forte dunque, che andrebbe pronunciata dopo un’attenta riflessione. Proviamo ad immaginare. Siamo parte di una setta, e sulla prima pagina di Charlie Hebdo disegnano il fondatore o leader di questa setta (movimento, organizzazione), in postura o atteggiamento ridicolo, che dice qualcosa secondo noi di inaccettabile (ma che dovrebbe impormi quantomeno una riflessione critica, o strapparmi una risata). Pensiamoci davvero: siamo sicuri di essere Charlie Hebdo? La satira, quando utilizza metodi pacifici (la matita) ha diritto di dire quel che vuole, ci piaccia o meno, pur sapendo che il confine tra satira e diffamazione è labile. Tuttavia, se non vi fosse motivo per fare della satira, nessuno perderebbe tempo a mostrare il lato oscuro della mia setta in maniera spiritosa. Sta poi al singolo e alla sua saggezza – magari anche alla sua cultura -, capire come affrontare la satira, quando coglierne sollecitazioni perché intelligente, e quando ignorarla completamente, perché gratuita, malvagia e stupida.

La verità è che la satira ci piace solo quando colpisce il nostro nemico, mentre siamo pronti ad addurre mille motivazioni ogniqualvolta ci sentiamo colpiti al cuore. Tuttavia, la satira si può sempre usare per fini politici. Mi lascio provocare da ciò che scrive un amico musulmano: “Perché Charlie Hebdo [e oggi tutti noi con loro] si ostina a pubblicare vignette su un uomo vissuto secoli fa [Maometto]? Un gruppo dice: è la libertà di stampa; io dico, cazzate! Tanti di loro amano provocare e usare la sensibilità islamica verso l’immagine, come fosse calcio politico, di propaganda a poco prezzo circa l’arretratezza dei musulmani e il bisogno di civilizzarli. Il secondo gruppo dice: siamo offesi; io dico, cazzate! Dovresti preoccuparti più del benessere sociale, economico e politico della tua società piuttosto che urlare di fronte alla vignetta di un uomo morto tantissimi anni fa”.

Credo che al fondo di questo uso strumentale – di stampa e terroristi – vi sia sempre la battaglia per il predominio di una civiltà, e la frustrazione di chi, vivendo fuori da entrambi questi fronti, e magari in Occidente con radici orientali, si sente via via privare della propria identità, ossia dell’orgoglio per il fascino e l’antica ricchezza di una civiltà florida, tollerante e geniale che qui pochi ancora studiano, sempre più etichettata come retrograda e antimoderna perché privata dei suoi migliori talenti. Questi vengono mandati a studiare in Occidente, e vivono un complesso d’inferiorità che si porteranno fino alla fine della loro vita pubblica, o sono combattuti tra il diventare difensori dell’una o dell’altra parte, senza avere modo di coltivare la propria identità. La Primavera araba è stata l’emblema di questa battaglia, fomentata dall’Occidente con le sue illusioni di democrazia e repressa nel sangue da regimi o da guerre civili, perché la scelta è netta e non può tollerare ibridi. Così, i difensori di questa antica e straordinaria civiltà, ridotta ad una sua interpretazione manipolata, conservatrice, antimoderna e misogina, diventano i potenti del mondo arabo, ossia sauditi ed emirati arabi, che insieme all’Occidente hanno creato il grande mostro.  Un mostro che ha perso la propria testa, la propria storia, il proprio orgoglio, e si rifugia in un’idea semplice di religione per ritrovare una casa, e nella violenza - arma dei deboli - per ritrovare un motivo per esistere e sentirsi vivo.  

3) Terzo, la relatività del coinvolgimento emotivo.  Quanto vale un morto nel nostro mondo “civilizzato”, e quanto altrove? Di conflitti nel mondo ce ne sono purtroppo moltissimi. Senza prenderli uno per uno, basterebbero due esempi in qualche modo collegati ai fatti di Parigi. In Nigeria, proprio nei giorni degli attentati, Boko Haram (altro gruppo terrorista islamico) si accingeva a mietere duemila vittime nel silenzio mondiale. In Siria – una Siria in cui, nel nostro immaginario, c’è solo l’Islam State, e invece no, c’è ancora e prima di tutto un regime sanguinario guidato da Assad e da esponenti della setta alawita – si continua a morire, e così pure nei campi profughi dei paesi vicini, dove sta nevicando, e le famiglie vivono senza elettricità e senza riscaldamento. La maggioranza di queste vittime è musulmana, per giunta sunnita, lo stesso ceppo dei combattenti dell’IS - dov’è qui Giuliano Ferrara con le sue crociate? I conti non tornano. Mi fa rabbrividire questo silenzio assordante sul genocidio siriano – e il suo conseguente esodo - che sta svuotando completamente un paese ricco di storia, cultura e dignità nell’indifferenza generale.


Ci sarebbe molto altro su cui riflettere, assenze e presenze stonate tra i leader di stato alla manifestazione di ieri a Parigi, o i disastri dell’intelligence.

domenica 4 maggio 2014

"I buoni" di Luca Rastello, viaggio nell'anima nera del sociale

Già prima di tornare in Italia per una breve vacanza, alcuni amici mi hanno accolta trionfanti annunciando l’uscita de “il” libro: I Buoni, di Luca Rastello (edizioni Chiarelettere), e regalato una copia. Senza addentrarmi nel merito della polemica tra l’autore, A. Sofri, G. Caselli e N. Dalla Chiesa, dico la mia, da lettrice che ha conosciuto certo mondo da vicino.

L’idea del romanzo mi sembra piuttosto originale, e solleva scomodi interrogativi su cosa si nasconde dietro apparentemente nobili attività di tipo sociale, fatti e vizi che spesso molti non vogliono o non riescono a vedere. 

Una ragazza rumena, Azalea, arriva a Torino, viene inserita in una comunità, e fa carriera fino a diventare la pupilla del grande capo, l'inavvicinabile santone che pare soffrire quando parla ed indossa maglioni bucati. Attraverso gli occhi di lei, quel mondo di "buoni" che lavorano per combattere il male oggi più in voga, le mafie (una volta era la droga), viene affrontato dapprima con riconoscenza e sorpresa, poi con critica e ribellione. Dietro tanti buoni propositi e attività meritorie, infatti, Azalea scopre ambigui rapporti di potere e dubbi flussi di danaro, bilanci falsificati, vizi privati pagati dai dipendenti con mesi senza stipendio, “accompagnamenti” (ovvero licenziamenti), contratti illegali, mobbing.

Finora il dibattito si è concentrato su don Silvano, personaggio senza dubbio ispirato a don Luigi Ciotti, e sul riferimento alle attività condotte dal Gruppo Abele, ma nel romanzo c’è molto di più. Livio Delfino somiglia in modo impressionante al deputato Mattiello, e il moschettiere che da un giorno all'altro inizia a vestirsi bene al direttore di Acmos e Benvenuti in Italia. Per quel che ne so, i riferimenti sono veritieri. Così come è fedele il linguaggio utilizzato nell'ambiente, le espressioni coniate dai capi, da imparare a memoria e da imitare. Anzichè prendere pur comprensibili difese, come fanno Dalla Chiesa e Caselli, perchè non chiedere qual è la verità a quanti ci hanno lavorato e poi sono spariti?

Ma la potenza di questo lavoro sta nel fatto di avere la forma di un romanzo. Forse in parte mosso da vendetta (chissà...), in un gioco di numeri e fatti espliciti, talvolta imbarazzanti, questo libro verrà consegnato all’eternità come ogni romanzo, scavalcando gli stessi personaggi a cui è ispirato, raccontando le verità per cui è stato partorito. Ovvero, l’altra faccia di chi lavora nel sociale, un tabù che pochi hanno il coraggio di affrontare. Chi ci è passato, si è interrogato, prova a starci a modo suo, chi lavora dal basso ignaro di certe dinamiche, chi non si fa domande, chi se le fa ma tiene duro per perseguire il proprio obiettivo, può confermare che Rastello non parla di un altro mondo, ma del nostro, delle trame oscure che albergano in ogni essere umano. Dove chi si oppone a certi poteri occulti talvolta finisce per replicare le stesse dinamiche con altri deboli. 

Quando lavoravo a Libera Piemonte (alcuni mesi pagata da un altro ente con un progetto fittizio, altri mesi non pagata perchè i soldi avuti da quell'ente come sostegno all'associazione dovevano bastarmi - alla faccia della legalità), e le mie superiori mi accusavano di non avere abbastanza passione (ovvero di non strapparmi i capelli durante le manifestazioni per le vittime di mafia, di non commuovermi quando parlava don Ciotti, di non sottostare alle indecenti condizioni di lavoro in nome dell’idea, di rivendicare i miei limiti di orario e una vita al di fuori del giro), dentro di me avvertivo il disagio di una parodia che non mi apparteneva, da cui sono fuggita.

Il romanzo di Rastello mi ha riportato precisamente a quelle sensazioni, per fortuna oggi così lontane. E visto che tanti provano a smontarlo, io lo difendo. Perché le verità scomode delle nostre vite private, al netto degli annunci pubblici, ci rivelano che non basta etichettarsi con attività meritorie per definirci santi, o buoni; che fare il bene ci porta inevitabilmente ad accarezzare il male (il grano e la zizzania sempre coesisteranno, e non riconoscerlo è da ingenui) e talvolta ci conduce a fare il male in nome del bene. A lui il merito di avercelo ricordato.

Non a caso, molti rivendicano un'antimafia diversa, nonviolenta, anti-mafiosa prima di tutto, ovvero priva di atteggiamenti equivoci anche nella gestione degli affari interni; un'antimafia che guardi al nemico con fermezza e umanità, cercando soluzioni più complesse, e che non si regga su un altro tipo di omertà. Altrimenti, come tante altre necessarie battaglie, essa diventa solo un'ideologia, come suggerisce Rastello, un modo per crearsi un posto nel mondo, raccogliere soldi, e non sfidare il male alla sua radice. 

Quando si chiede all’autore di riassumere il lavoro in una riga, egli afferma: "Se abbassi lo sguardo critico su te stesso e vesti un’identità virtuosa con troppa convinzione probabilmente stai stritolando qualcuno”. Questo è solo un assaggio. Per i dettagli, leggete il libro!


giovedì 27 marzo 2014

All'estero non sempre è meglio: quello che i giornali non dicono

In questo post, che riassume alcuni miei post precedenti, vengono messi volutamente in luce gli aspetti negativi della mia vita da expat, per dire quella parte di verità che così poco traspare dai media quando si raccontano le storie di chi vive all'estero, storie opportunamente selezionate, generalmente "vincenti". Non è mia intenzione negare gli aspetti positivi che ho raccontato altrove. Premessa doverosa, perciò, è che ogni singola esperienza può essere diversa a seconda di età, spirito, budget, ambito di lavoro, incontri, fortuna, fase di vita, priorità del momento.


Vivo da un anno e mezzo lontano dall’Italia e non ci torno spesso. Ero andata via perché stanca del provincialismo, del precariato, del pessimismo. Vivevo a Torino, la città che più ho amato (più di Roma, di Parigi, di Bruxelles, dove ho pure ho vissuto per un po' nel frattempo) e che ad un certo punto non sopportavo più. Per strada, la gente era imbruttita. Non c’era più fiducia, non c’era più speranza, la crisi le aveva mangiato l'anima. Ero arrivata da un paesino della Puglia dieci anni prima, ma anche Torino era diventata troppo piccola, troppo uguale all’Italietta viziata, troppo limitata, troppo autolesionista.

Sono andata via senza reali opportunità, ma con la voglia di vedere qualcosa di diverso, e prendermi del tempo per pensare e migliorare l’inglese. Ho conosciuto moltissime persone, italiani e non, e visitato, per lavoro (occasionale), diversi paesi europei e mediterranei (Turchia, Egitto, Grecia, Germania). Ho vissuto per alcuni mesi a Londra, a Susa in Tunisia, a Glasgow in Scozia. Ogni volta che tornavo in Italia, nonostante l’entusiasmo delle nuove esperienze, mi assalivano dubbi, che ora spiegherò.

Dall’Italia si guarda all’estero come al mondo delle favole. Tutto funziona, si trova lavoro, ti trattano benissimo, il tuo merito viene sempre riconosciuto. Dopo un po’ questa retorica (che all’inizio colpisce, effettivamente) l’ho trovata un po’ falsa e mi ha decisamente stancato. Complice sicuramente l’avanzata di una crisi che ha superato ogni immaginazione. Questa è quella parte di storia che si legge poco sui giornali, perché non fa gola e non alimenta la retorica che l’Italia è sempre peggiore.


Londra: una città, una nazione, la meta da sogno degli italiani in fuga

A Londra se arrivi con un titolo italiano che non sia ingegneria non è così facile trovare lavoro. In più, oltre al fatto di essere dannatamente cara, da un anno la massa di sudeuropei che ha invaso la capitale britannica ha creato un ingorgo nei settori in cui anni addietro si riversavano in massa (e abbastanza facilmente) gli immigrati che arrivavano senza conoscere la lingua, come la ristorazione. Anche a Londra ti assumono in nero, e/o ti pagano a provvigioni, o una miseria; anche a Londra (gli italiani che hanno fatto fortuna) ti chiedono (mio primo colloquio in assoluto!) se sei impegnata, per tastare libertà di movimento e possibilmente allontanare spettri di gravidanze. Anche a Londra fai stage a gratis (e ti pagano solo le spese di trasporto e pranzo, che comunque sono un salasso!), illudendoti che troverai di meglio. Anche a Londra, dopo aver preso un Master nelle migliori università del mondo, puoi aspettare mesi prima di trovare un impiego (supportato però dalla Job Seekers Allowance, che da noi non c’è, ma che, considerando i costi di vita della capitale, non consente lo stesso una vita indipendente). A Londra sei disposto a fare, nella speranza di un futuro diverso, dei lavori che in Italia non faresti mai. Anche a Londra ci sono tanti disoccupati, sia inglesi che stranieri, che attendono la svolta. E molti di quelli occupati che fanno orari da schiavi con paghe da fame (esempi fra tutti i kitchen-porter e venditori asiatici degli shops aperti 24h) sono comunque al di sotto del livello di povertà, considerato il costo della vita. Anche a Londra (ma non solo, per fortuna) hanno finalmente importato la parola e il concetto di “precariato”. Ho fatto un’intervista (per me indimenticabile) al professore che ha questo merito. Come tutti qui, risponde immediatamente alle email e organizza la chiamata via skype. Sì, anche lui che per vent’anni è stato consulente dell’ILO.

D’altro canto, a Londra puoi fare anche palate di soldi, o semplicemente vivere bene e costruirti una carriera, se lavori nel settore giusto, se hai il marito giusto o se hai i genitori giusti (meglio se in Parlamento) che ti paghino una buona Università o che, per fuggire al Fisco, decidano d'investire nell’immobiliare, e ti comprino una casa nel quartiere Kensington o Islington (perché si può essere secondi solo a William e Kate!). Ma questa è una storia che conosciamo bene e che viene adeguatamente rappresentata nei media (senza però raccontare i retroscena e i vantaggi di partenza), al contrario di quest’altra, quella di tanta gente comune, figlia di nessuno, che non ce la fa secondo la retorica corrente, non perchè peggiore ma perchè tutto il mondo è paese.

Così come non posso negare il fatto che Londra valga l’esperienza in sé, perché è un mondo nuovo, dinamico, appassionante e variegato che, se possibile, bisogna sperimentare e conoscere. Nonostante le (imponenti) diseguaglianze, questa città continua a colpire l’immaginario perché offre grandi sogni, e a tratti anche barlumi di normalità. Amicizia, amore, politica, passioni. Vertigine e solitudine. Shopping e natura. 

Pur essendoci rimasta relativamente pochi mesi, sette – e solo grazie all’impagabile ospitalità di una coppia di amici –, ho conosciuto da vicino le abitudini degli autoctoni vivendo per due mesi in una famiglia inglese (dove si cena seduti tristemente sul divano a guardare la tv, non a tavola), ho reimparato ad appassionarmi alla politica italiana grazie al PD Londra, ho consumato troppe suole per conoscere ed amare gli angoli sconosciuti e poco turistici, ho provato l’ebbrezza di entrare nell’esercito dei job seekers al servizio della rigida “governamentalità” dei job centers. Ma soprattutto ho capito che la parte migliore, più consona al mio spirito, era fuori Londra (scoperta non banale, visto che molti abitanti o visitatori non conoscono il resto del Regno Unito). Così sono partita, alla prima occasione di lavoro. Ma non per Bristol. Per la Tunisia.


Susa e Tunisia: dove gli italiani vanno a godersi la pensione

La Tunisia, così inneggiata (non solo in Italia) nella retorica rivoluzionaria della primavera araba, così amata dai connazionali, in quella fase era ancora abbastanza pericolosa e instabile. Sempre per rovesciare i credo italici, questa terra si è rivelata un campo di battaglia tra americani e tedeschi sul fronte rivoluzionario, e tra integralisti e moderati/laici sul fronte religioso e politico. Gli italiani in fondo l’amano perché viverci costa poco e perché vengono trattati come degli déi. È vero che sempre più connazionali ci si trasferiscono in tempo di pensione, perché anche con 500 euro a testa (oltre 1000 dinari tunisini) si conduce una vita dignitosa, e poi farsi costruire una casa costa poco (tanto chi se ne frega della cementificazione sfrenata! Moltissimi europei hanno qui la seconda casa, disabitata per gran parte dell’anno). Detto questo, è vero che in Tunisia ci sono alcuni angoli incantevoli (Kelibia e Mahadia su tutte), ma è decisamente sporca e inquinata da buste e bottiglie di plastica. E anche lì ho rimpianto e riapprezzato il nostro verde, conservato dignitosamente anche nei posti meno curati, non solo nei giardini degli ambasciatori a Sidi Bou Said.


Glasgow, dove può capitarti di morire a sessant’anni (come in tempo di guerra)

Quando ho deciso di riprendere a studiare per un anno, ho scelto Glasgow perché mi era piaciuta. Mi ricordava per certi versi Torino: angoli molto belli alternati a palazzi bruttissimi, spirito tenacemente popolare, e in più tanta buona musica. Glasgow conserva quella rudezza british (irritante quanto affascinante) che è quasi scomparsa a Londra. Qui c’è meno “plastica”, nel bene e nel male. Puoi andare ancora ad un concerto gratis, o a 5 pound, e suoni nei locali anche se sei brutto, hai sessant’anni e indossi una tuta (ah, puoi tenere pure delle lectures universitarie in tuta, se così ti gira). Anche qui però c’è tantissima disoccupazione, e se sei fortunato finisci a lavorare in un call centre (ma va?!). Le statistiche dicono che nelle zone più povere della città (senza andare troppo in periferia), ad est, si muore in media a 56 anni. Per una congiuntura che nessuno sa ancora spiegarsi, il cosiddetto “effetto Glasgow”: alcol, droga, pessima alimentazione (?). Lo stato spende miliardi per programmi di educazione alimentare, puntualmente progettati e valutati da esperti accademici che esultano se un bambino capisce l’importanza di mangiare ogni tanto una mela e un po’ di verdura. Qui a Natale le famiglie passano a prendere il pranzo pronto in rosticceria. A me, che vengo da un paesino che sforna cucina e sapori di prima qualità, tutto questo sembra assurdo. E se hai dei figli, scordati di uscire la sera se non vuoi reclutare una baby-sitter: i minori di 18 anni non sono ammessi praticamente dovunque, neppure accompagnati.


Potrei continuare all’infinito, e non perché mi diverta sottolineare le criticità (vissute da me o dai miei amici) dei posti in cui ho vissuto, o in cui sono stata di passaggio (potrei anche raccontare di Berlino, volendo), interrogando i migranti su come vivono realmente. E' che si parla solo di buoni stipendi, carriere e trattamenti privilegiati per gli italiani, sempre e comunque, e non è vero.

È che stando via mi è successa anche una cosa curiosa, che ritrovo prepotentemente nei discorsi di Matteo Renzi. Ho reimparato a guardare la bellezza dell’Italia, quella che stiamo svendendo a russi e compratori vari, e il valore di tante sane tradizioni, grazie al confronto con queste realtà. E soprattutto grazie agli occhi e alla bocca degli stranieri stessi. Che amano la nostra terra, mangiano un gelato e si sentono in Paradiso, sono capaci di attendere per mesi un visto pur di passarci, o farsi fotografare sulla gondola o davanti alla fontana di Trevi, e a volte conoscono posti che a te mancano. In fondo capisci il valore delle cose quando percepisci che le stai perdendo. E l’Italia è troppo bella e ricca di umanità, cultura, arte, cucina e tradizioni popolari per fare la fine che le vorrebbero far fare.

Se c’è una cosa che ho scoperto valga davvero una partenza, è appunto la forza del confronto, che abbatte il pregiudizio, e ti riporta alla realtà delle cose e al loro valore. Il valore delle relazioni, del cibo buono e sano, delle stagioni, del tempo che passa senza restare soli, anche se lo Stato non ti assiste materialmente. Il valore estetico delle nostre diversità regionali, architettoniche, culturali, dialettali. Il valore delle piccole battaglie, che devi esser pronto a condurre nel paesino africano come in quello del Sud Italia.

Così, un semplice tramonto sul Monte Vulture (come quello qui sotto), dalla stessa visuale che ho avuto per diciannove anni, riacquista una bellezza inaudita, perché viene assaporato con la stessa emozione e meraviglia accumulata in viaggio. Tutte cose che, quando scopri che si è precari dovunque, acquistano un valore immenso, ti fanno star bene dove sei ma con una nuova, inaspettata, nostalgia dell’Italia. 

Se tanti di quelli che volessero tornare potessero farlo, pur rinunciando a qualcosa, e avessero spazio per mettere a frutto creatività e innovazione, così apprezzate tra chi non ce le ha (i così tanto elogiati cinesi, per esempio), se tornasse ad esserci un clima di fiducia, l’Italia sarebbe davvero il paese più bello del mondo.



domenica 2 marzo 2014

Snowden Rettore (in the name of freedom)



Glasgow, 22 febbraio 2014

Edward Snowden, 30 anni, l’ex dipendente della CIA che ha svelato l’utilizzo dei dati privati da parte del governo USA, è stato eletto Rettore dell’Università di Glasgow con oltre tremila voti il 18 febbraio 2014. Sembravano uno scherzo del tipo “vota Antonio” i manifesti appesi ad ogni angolo del Campus (“Vote Edward Snowden”) e invece la campagna aveva qualcosa di reale oltre che simbolico. Snowden vive da esule in Russia ed è diventato il simbolo della battaglia contro la invasività dell’intelligence americana nella vita privata degli individui di tutto il mondo, iniziata in modo sistematico e massiccio all’indomani dell’11 settembre, con una legislazione antiterrorismo al limite del costituzionale. Con questa elezione, gli studenti di Glasgow hanno voluto rendere omaggio alla libertà d’informazione e d’espressione di cui ogni Università dovrebbe essere veicolo.

Snowden ha così commentato la sua elezione: "Sono grato agli studenti dell’Università di Glasgow per questa dichiarazione storica in difesa dei nostri valori condivisi. Questa decisione coraggiosa ci ricorda che il fondamento di ogni apprendimento è audace: il coraggio di investigare, di sperimentare, di domandare. Se non contestiamo le violazioni dei diritti fondamentali delle persone libere di essere lasciate indisturbate nei loro pensieri, associazioni e comunicazioni – di essere libere dal sospetto senza causa – avremo perso il fondamento della nostra società pensante. La difesa di questa libertà fondamentale è la sfida della nostra generazione, un lavoro che richiede la costruzione di nuovi controlli e protezioni per limitare i poteri straordinari degli stati sulla sfera della comunicazione umana. Questa elezione dimostra che gli studenti della Glasgow University intendono aprire la strada, ed è mio grande onore servire come loro Rettore”.

Il ruolo di rettore non è di sola rappresentanza, ma presiede anche l’organo incaricato di gestire le risorse dell’Ateneo. Su questo punto, vi è da qualche mese un grande dibattito circa la decisione di destinare, da parte dell’Università di Glasgow, oltre 19 milioni di pounds in fondi d’investimento di combustibili fossili e compagnie quali Shell e BP. Gli studenti, con la raccolta di oltre 1000 firme (nell’ambito della campagna globale Go Fossil Free), chiedono di rivolgere tali investimenti ad altri settori, come quello delle energie rinnovabili, in ragione dell’impatto negativo che le industrie di combustibili fossili hanno e continuano ad avere sui cambiamenti climatici.

L’elezione ha suscitato commenti di ogni tipo. Da un lato, il prof. Scheuer della Georgetown University (US) ha definito tale scelta un segnale di fallimento del sistema universitario scozzese, poiché Snowden rappresenta a suo parere un modello negativo, che ha tradito la propria patria e danneggiato sia USA che UK. Dall’altro c’è il linguista americano Noam Chomski, che il 21 febbraio, in collegamento dal suo studio via Skype, si è complimentato con gli studenti per una scelta di libertà e indipendenza, mettendoli inoltre in guardia di fronte alla tendenza sempre più marcata delle Università anglo-americane di utilizzare i luoghi della creatività e della diffusione del sapere al servizio del mercato. Durante il suo breve intervento, egli ha elogiato e supportato la campagna contro i contratti da “zero ore” (una tipologia di contratto “a chiamata” introdotta in UK per favorire la flessibilità dei lavoratori occasionali e part-time, molto utilizzata nel settore dell’istruzione, della sanità e della ristorazione), che danno lavoro precario a più di 770 membri del personale amministrativo.



mercoledì 1 gennaio 2014

Nebbia fitta, metafora di un Paese

Minervino Murge, 1 gennaio 2014

C’è nebbia fitta qui a Minervino, dopo giorni di alte temperature e di tramonti rosso fuoco. Mi capita di passeggiare per le strade di un paese deserto. Il senso di desolazione, acuito dalla nebbia, stavolta è netto. Dovunque spuntano cartelli di “Vendesi”, specie sulle porte delle case del centro storico, mentre nella zona nuova si continua a costruire, a cementificare, a vendere.

In questi giorni, chi è rientrato è tornato alle tradizioni enogastronomiche del Natale e ai raduni familiari. Passando dalla piazza principale, il centro del paese, osservo i bar pieni di uomini, che mi ricordano i bar “poveri” della Tunisia, e noto che dopo oltre trent’anni si sta finalmente ristrutturando – con calma - un vecchio cinema. Prima ancora ce n’erano due, di cinema, ma a quei tempi, va detto, non c’era la televisione.

Nel paese resistono alcune giovani famiglie e tantissimi anziani (i cui figli vivono altrove) accuditi da donne dell’est Europa, che ogni pomeriggio si radunano, alle cinque, nella villa Faro. Il centro storico, composto di antiche casette bianche, strettoie e strade in pietra, sta crollando a pezzi, e i pochi angoli ristrutturati dai singoli privati spesso stonano con l’architettura di base. È proprio un peccato assistere a tutto questo. Nessuna iniziativa per la cultura, l’evento di punta resta la sagra del fungo cardoncello, a fine ottobre.

Che è pure qualcosa, la sagra, ma possibile che nessuno valorizzi a livello turistico il fatto che Minervino si trovi entro i confini del Parco Nazionale dell’Alta Murgia, istituito nel 2004? Possibile che nessuno noti l’assonanza con i paesaggi del West Bank palestinese? Possibile che la biblioteca, una volta frequentatissima e ricca di iniziative, stia morendo, e che nessun bambino legga più? Che il palazzetto dello sport resti inagibile per motivi di sicurezza? Che non ci sia una piscina comunale, una libreria (degna di questo nome), un modo per ridare vita al centro storico? Che nell’amministrazione comunale non ci sia ricambio effettivo e una svolta politica, al di là dell'utile scusa della mancanza di fondi? Che con la generazione dei nostri genitori si stiano perdendo definitivamente le tradizioni più importanti?

È, forse, la metafora di un intero Paese. Servirebbe un movimento più generoso delle nostre singole buone intenzioni, fomentato dalla crisi e dalla necessità di lasciare – per motivi di oggettiva invivibilità – le città della moda e della finanza, che spezzi il dominio della mentalità chiusa e gretta, e che riporti anche solo per periodi limitati molte delle energie positive educatesi nei viaggi e nel confronto con culture differenti.